Concezioni di verità tra modernità e tradizione in Walter Benjamin

Di Attilio Fortini

Hannah Arendt nel suo scritto dedicato a Walter Benjamin, ci parla di un’aspirazione di questi evidentemente eccentrica, ovvero redigere <<un’opera che consistesse unicamente di citazioni>>[1]. Una cosa veramente inconsueta, probabilmente assimilabile ad un clima surrealista, come la stessa Arentd sostiene, ma non semplicemente come suggestione culturale, bensì come esito di una ricerca teorica strutturatasi nel corso di alcuni periodi della vita di Benjamin, e rintracciabile all’interno di parte dei suoi scritti.

In questa indagine condotta dall’autore, un concetto importante emerge, come vedremo, nella parola riproducibilità. Esplicitamente questo termine compare nel titolo del saggio che egli pubblica nel 1936, per la rivista Zeitschrifit für Sozialforschung, diffusa in quel periodo a Parigi, che è nella traduzione italiana, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica[2]. Parola che nel titolo si accompagna quindi con il termine tecnica, e che pertanto denota un processo tipico della modernità. Questa, come epoca, viene appunto caratterizzata da un nuovo tipo di riproduzione. Il tema in questione risulta centrale per Benjamin; egli intende affrontarlo perché ne ha colto l’essenzialità, non semplicemente come frutto estremo di una successione di eventi, ma come ultima espressione temporale di una necessità incombente, identificabile come il senso della storia nel suo generarsi: l’epoca della riproduzione tecnica, la modernità appunto. Ed è sempre la modernità che è in attenzione al nostro autore negli scritti che riguardano l’opera di Charles Baudelaire, come quelli inerenti la Metropoli parigina[3]. In questi saggi è ben evidente l’intenzione di Benjamin di affrontarne il tema per poterne cogliere l’essenza profonda. Questa risulta essere inserita in un ambito temporale ben circoscritto: il presente. Una categoria che per lui non è assoluta, bensì in relazione al divenire complessivo dell’esistente.

Benjamin non approfondisce i significati della modernità esclusivamente perché essa s’impone come attualità a cui fare fronte, ma in quanto solo in essi è possibile trovare il senso del presente. E’ del resto un fatto fondamentale che egli, ricercando il presente, trovi che questi è sostanzialmente la modernità. Questa consapevolezza è anche riconoscere che alla modernità non è possibile sottrarsi, in quanto ciò significherebbe perdere il proprio momento: il tempo della vita. Ma come si è detto Benjamin non cerca un presente isolato dal suo essere inserito in un processo del divenire, altrimenti egli sarebbe soddisfatto nel semplice esame della modernità. Per comprendere i nessi in questione, è necessario un ulteriore “scavo”, nell’opera del nostro autore.

Gli scritti attorno alla tematica del linguaggio ricoprono una funzione nodale a questo riguardo[4]. Essi favoriscono la teoretica connessione tra il “prima” ed il “poi”. Nello scritto Il compito del traduttore[5], ciò che si evidenzia è proprio questo rapportarsi di una temporalità della significazione, che avviene tra l’originale e la sua traduzione. Qui il presente non è un momento cronologico, ma bensì il soggetto dell’acquisizione del senso: il “poi”, che non può essere posto che in relazione con un “prima”. La traduzione viene quindi a ricoprire la funzione di un’attualizzazione del passato, e solo in questo rapporto sta la sua realtà: essere una traduzione. Questa coglie la sua sostanzialità dall’originale, che viene a connotarsi come la sua origine. <<In esse [le traduzioni] la vita dell’originale raggiunge in forma sempre rinnovata, il suo ultimo e più comprensivo dispiegamento>>[6]; e più avanti: << tutte le manifestazioni finalistiche della vita, come la loro finalità in generale, non tendono in definitiva alla vita,>>[7] il presente della traduzione, come quello della modernità, non è finalizzato a se stesso, <<ma all’espressione della sua essenza, all’espressione del suo significato>>[8], del suo senso originario, del suo prima.

In ciò emerge un interesse maggiormente specifico di Benjamin, quello relativo alla verità del presente. L’essenza di questi viene evidenziandosi nella seguente interrogazione: cosa è che diviene nel presente? Cosa gli giunge e lo fa essere tale, trasfigurandolo dall’essere mera apparenza, ovvero solo attualità? E’ chiaro che ciò sia l’origine, sulla quale il presente ha possibilità di fondare il proprio senso, ottenendo la possibilità di costituirsi come verità dell’uomo. Ma Benjamin non rimane nel vago di un’origine generica, egli specifica di quale tipo essa sia.

Nella premessa gnoseologica del Il dramma barocco tedesco[9], egli si esprime in questi termini: <<con origine non s’intende un divenire del già nato, bensì un divenire e un trapassare di ciò che nasce. L’origine sta nel fiume del divenire come un vortice e trascina dentro la propria ritmica il materiale della nascita>>[10]. Un’origine che trascina il materiale della propria nascita, non è ciò che è già nato. In questi passi si esplicita pertanto l’atteggiamento del nostro autore nel concepire i significati del tradizionale. Egli reputa che il “trasportare” sia fondamentale per il presente, in quanto permette che vi sia una base materiale sul quale qualche cosa possa nascere. Ma questo trasporto, non può comunque essere un divenire di ciò che è già nato, una normalissima trasposizione, altrimenti il presente non potrebbe mai nascere, ovvero non si potrebbe vivere in un tempo che sia veramente nuovo, quello che Benjamin definirebbe messianico.

A questo punto è opportuno approfondire il concetto di tradizione nel modo in cui, nelle parole di Benjamin, acquisisce consistenza: <<divenire del già nato>>[11]; proprio per comprendere su quale tipo di verità la tradizione si fonda. Essa si propone come un divenire che ha come unico compito quello che il già nato venga a noi. In questo senso l’origine è ciò che è stato, e, funzione della tradizione, risulta essere la riproduzione il più fedele possibile di questi. La tradizione pone la sua verità in questa fedeltà. Il ricordo, la fedeltà a questi, il suo canone. Ma per Benjamin non è completamente adeguato questo modo di realizzarsi della verità su cui si fonda la tradizione. Quando egli parla di trapassare di ciò che nasce, riformula questa modalità, la quale per confrontarsi realmente con la vita, deve appunto offrire la nascita, e non solo la rinascita. Una nascita che non ha comunque escluso che la sua possibilità si ponga in un materiale che provenga dal passato. Benjamin in questo modo non annulla il valore della tradizione, ma pone le premesse perché essa possa beneficiare il presente, e non rimanga, nella sua sdegnata ritrosia, impossibilitata a significarlo. Diviene ora importante porsi le seguenti domande: che tipo di materiale è quello che il nostro autore definisce della nascita, ma anche, in che modo esso giunge?

Alla prima domanda egli sembra rispondere quando parla degli <<oggetti della teologia senza i quali non si può pensare alla verità>>[12]. Oggetti che per Benjamin, attento a riconoscere il valore delle sue radici culturali ebraiche, sono rigorosamente insondabili e indiscutibili; non sono posti in questione, come vorrebbe un pensiero più specificatamente occidentale. Questi invece, nel porre in discussione la realtà divina, trova evidenza nella perdita del primato divino sull’uomo, che viene a profilarsi nell’Umanesimo, sia Socratico che Rinascimentale, come nell’Illuminismo Deista, o nello Scientismo Positivista. Queste correnti culturali, possono benissimo rappresentare dei picchi di un pensiero che si è presentato, nei confronti della divinità, come la manifestazione della sua lenta agonia e dissoluzione. Cosa del resto chiaramente evidenziata nell’affermazione lucida e disincantata, proprio perché ha la sua verità nei fatti, della Nietzschiana morte di Dio, che come è risaputo, si accompagna con un vero e proprio corredo funebre: il Nichilismo. Ed è la problematica che questi solleva, ipotizzo, a stagliarsi sullo sfondo della scelta che il nostro autore conduce, quando decide di non trascurare i nessi teologici insiti nella sua cultura di derivazione.

Benjamin però, ponendo la teologia come fondamento di verità, non distoglie altresì lo sguardo dalla filosofia, in quanto è proprio questa che ha il compito di far giungere la verità all’uomo. In questa prospettiva non appare perciò fuori luogo che Benjamin sostenga che il padre della filosofia sia Adamo e non Platone. Adamo il cui <<denominare adamitico è talmente lontano dall’arbitrio [...] il quale non era ancora costretto a lottare col significato informativo delle parole>>[13]. Ma se il padre della filosofia è Adamo, egli non è comunque ancora filosofo. Questi è colui che lotta con il significato informativo delle parole; è colui, che come Platone, cerca le idee. Solo attraverso le idee è possibile comprendere le parole di Adamo, le parole dell’origine. In fondo è la verità delle idee che il filosofo cerca. Egli le cerca perché non sono semplicemente conoscibili; perché <<l’oggetto della conoscenza non coincide con la verità>>[14]. <<Le idee sono un che di già dato>>[15]; esse sono tali perché vivono al cospetto del vero, della parola adamitica. Non sono pertanto un riflesso rappresentativo, ma la verità di quella origine. Esse, perciò, <<si danno, estranee all’intenzione, nel denominare>>[16].

E’ allora, attraverso le idee, che la verità delle parole può continuare a venire ripristinata, ma per far ciò, e per non tradire la verità originaria, <<le idee devono rinnovarsi nella contemplazione filosofica>>[17]. In questi termini si palesa il divario che si frappone tra una concezione di verità posta in termini tradizionalistici, ovvero attraverso la negazione di qualsiasi rinnovamento, e quella che l’autore sembra prefigurare; affinché si possa attuare una fedeltà propositiva, non quindi ristretta ad una sola riproposizione automatica della verità originaria. Per Benjamin il rinnovamento è qualche cosa di indispensabile. Egli paradossalmente sembra dirci che, per poter rimanere fedeli, non possiamo altrimenti che tradire. Ciò si esprime in un passo del saggio Il compito del traduttore[18]: <<come si mostra che nella conoscenza non potrebbe darsi obbiettività, e neppure la pretesa ad essa, se essa consistesse in copie o riproduzioni del reale, così si può dimostrare che nessuna traduzione sarebbe possibile se la traduzione mirasse, nella sua ultima essenza, alla somiglianza con l’originale. Poiché nella sua sopravvivenza, che non potrebbe chiamarsi così se non fosse mutamento e rinnovamento del vivente, l’originale si trasforma>>[19]. Appare chiaro dunque, che il tradimento auspicato da Benjamin è da formularsi nei confronti del tradizionalismo, il quale, chiuso nel culto del passato, rimane cieco nei confronti di una attualizzazione dei propri contenuti; in modo da perdere la possibilità che il presente abbia, oltre alla sua apparenza, anche un significato. L’origine in questa condizione rimane perciò mitica e irraggiungibile, il presente, come realtà nuova, sostanzialmente insensato. Ma a Benjamin sta a cuore il presente, forse anche solo perché coincide con il suo vivere. E’ perché crede che questi non sia senza senso, che si muove all’interno di un recupero dell’origine. Proprio in quanto è attraverso il riconoscimento del punto di partenza, che è possibile comprendere il percorso che si sta attuando. Un percorso che non ricerca la rassicurazione attraverso un’improbabile meta nel noto passato, ma che nel divenire, in un presente capace di riattualizzare la propria origine, ha la sua meta: probabilmente non certissima, comunque neppure totalmente impensabile. Ed è attraverso la parola, più che in una temporalità astratta, che avviene per Benjamin il recupero dell’origine. Questa si dimostra essere la verità stessa della parola. <<La lingua non dà mai puri segni>>[20], come vorrebbe la concezione borghese, ne è << l’essenza delle cose>>[21], come deputerebbe la teoria mistica del linguaggio. La parola è lo strumento creatore di Dio, il mezzo con cui l’uomo può conoscere le cose. E’ attraverso la parola che l’uomo può comprendere le cose; ed è solo attraverso questa unione con il verbo creatore, che egli può significare la realtà in cui vive.

Ciò dimostra come viene a connotarsi l’origine. Questa non risulta essere semplicemente qualche cosa che afferisce al passato, ma bensì un’entità in continuo mutamento, che costantemente, attraverso l’incessante attività di significazione, trova nel linguaggio umano la propria rigenerazione. La parola in assenza del peso conferitogli dall’essere luogo ove l’origine persiste, sarebbe vuota, puro segno, ponendo al proprio opposto un puro significato. Ciò le implicherebbe di divenire completamente muta, proprio per aver dissolto la sua possibilità di essere parlante, ovvero, parola che non può aver senso che per l’uomo stesso.

Ed è attraverso questa unione con l’origine, la quale non dimentichiamo è teologica, che la parola può mantenersi nella sfera dello spirito, e realizzare le possibilità attribuibili alle sostanze immateriali. Pertanto <<la lingua è allora l’essenza spirituale delle cose>>[22] ed <<è identica alla loro essenza spirituale>>[23]. Presupposti indispensabili affinché sia comprensibile la seguente affermazione: <<ogni parola è tutta la lingua>>[24]. Quanto qui sostenuto dall’autore nel saggio Sulla facoltà mimetica[25], ha validità proprio in quanto viene attuata una considerazione della lingua intesa come evento unico ai fini della possibilità di senso dell’uomo; non perciò frantumabile in infiniti significati, e proprio per questo in nessuno. In tutte le parole esiste la medesima legge, ed è questa che unisce tutte le parole facendole essere una lingua. Ed è proprio perché ogni parola porta con sé questa uguaglianza, che le singole parole possono articolarsi nella narrazione delle differenze. Mentre se non vi fosse questa unione, ogni parola non potrebbe che mettere capo ad una lingua, quella, senza dubbio, dell’incomunicabilità: una non lingua. Ma questa legge che sovrintende al linguaggio, non è intendibile come una legge regolativa. Essa proviene direttamente dall’origine. Non è afferrabile come una qualsiasi legge logica, proprio perché come il senso dell’esistente non è limitabile alla sua apparenza, così il linguaggio, che l’esistente sostanzialmente presenta, non è limitabile alla soddisfazione di esigenze funzionalistiche.

Questa legge è perciò la legge dello spirito, o meglio, è lo spirito stesso. Uno spirito che, attraverso l’eccessiva attenzione ai caratteri attualizzativi, il mondo moderno ha emarginato. Proprio come quell’omino gobbo di cui Benjamin parla: questi per poter giocare a scacchi, deve camuffarsi in un burattino, deve mettersi al servizio di un <<fantoccio chiamato materialismo storico. Esso può farcela [a vincere] senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno>>[26]. Un materialismo storico che senza una teologia intrinseca non sarebbe in grado di possedere un proprio peso specifico. Questa è la denuncia che Benjamin rivolge a chi ha bandito il metafisico pur continuando a basarsi sulle sue strutture. Proprio perché senza di queste la storia potrebbe solo avvenire, ma non possedere un fine, un senso comprensibile. Ma purtroppo la modernità, si è spesa senza indugi nell’abolire tutto ciò che poteva essere compromesso con il passato: lo ha praticamente raso al suolo. Ha questa sostanza infatti il passato che l’angelo della storia, figurazione che Benjamin ricava dal suo amatissimo dipinto di Paul Klee, si trova ad osservare attonito: <<egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine>> [27]. <<Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti>>[28] ridestare il prima, coloro che hanno vissuto nel passato e che ci hanno atteso sulla terra come il conseguente poi, affinché la storia si ricollochi nel divenire, <<ma una tempesta spira dal paradiso>>[29], quella medesima che ha raso al suolo e che impedisce all’angelo d’intrattenersi, <<questa tempesta [...] ciò che chiamiamo progresso>>[30], è ciò che <<spinge irresistibilmente nel futuro>>[31].

Attraverso questa suggestiva immagine dell’angelo della storia si mostra il carattere oppositivo di modernità e tradizione. Un carattere pertanto conflittuale, che non va comunque colto attraverso atteggiamenti d’esclusione, ma con attenzione alle complessità significative che provengono dalle sue implicazioni. Questo è l’atteggiamento che Benjamin sembra proporre; in quanto nonostante egli sia convinto che <<in ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla>>[32], appare del resto consapevole che la tempesta che si è impigliata nelle ali dell’angelo, e che lo trattiene, <<spira dal paradiso>>[33]. Si comprende in questo modo il ruolo che l’autore assegna alla tradizione: quello di attendere al futuro. Un futuro non ostile, anche se conflittuale, proprio perché il suo carattere messianico di redenzione, auspica il miglioramento, non l’azzeramento del passato.

In questa ottica quindi Benjamin sonda la modernità. Egli è guardingo, perché sa che essa porta con sé caratteri messianici. Non si conduce pertanto a rinnegare la modernità esclusivamente perché questa ha rinnegato la tradizione. Anzi, il suo impegno appare rivolto a far sì che tradizione e modernità si pongano tra di loro in rapporto, forse anche perché gli è chiaro che altresì entrambe sarebbero squalificate. Questa affermazione richiede comunque ulteriori esplicitazioni, in quanto per comprendere come esse si falsifichino vicendevolmente, conviene osservare con quale peculiarità affermino il vero, o anche, il modo specifico in cui lo realizzano. Se nella tradizione il canone di verità è affidato, come si è visto, alla fedeltà del ricordo, questi nella modernità è divenuto una <<reliquia secolarizzata>>[34]. Un nuovo criterio ha adottato la modernità. Esso ha la sua fedeltà nella riproduzione tecnica, non più in quella rammemorante, proprio perché il prodotto <<ha un valore finora ignoto; [e] il sempreuguale appare per la prima volta sensibilmente nella produzione di massa>>[35]. E’ questa uguaglianza sensibile, con la forza di essere un fatto riscontrabile materialmente, a soppiantare l’arbitrarietà del ricordo. Il sempreuguale è perciò l’esito di un’esigenza di verità riscontrabile, che ha nella nuova concezione produttiva la sua concreta attuazione. Una evidenza di quanto detto si potrebbe rintracciare nell’uso del denaro. Questi è ritenuto tale quando la sua realizzazione concreta sottostà a determinate caratteristiche che non mutano mai in nessuna realizzazione: la verità o falsità di una banconota ad esempio. Ciò è comunque, del resto, attribuibile a tutto quanto viene prodotto in serie. Il sempreuguale di un qualsiasi prodotto, come potrebbe essere una bibita come la Coca-Cola, è garanzia che in tutti i luoghi della terra in cui questa si berrà, essa presenterà sempre lo stesso gusto aromatico. La sua verità in fondo, sarà come nel denaro di non mutare mai le proprie caratteristiche, quindi il proprio valore intrinseco, nel caso del prodotto, o comunque rappresentativo, nel caso della banconota. Il sempreuguale perciò trasforma l’atteggiamento che si ha nei confronti del reale, riformulando anche il nostro consueto rapportarci con spazio e tempo. Quest’ultimo, per il motivo di non possedere la differenziazione, diviene sincronico, così come lo spazio acquisisce ristrettezza. Ipotizzando di realizzare un edificio in cui tutte le stanze fossero perfettamente uguali, vivere ad esempio al piano terra, sarebbe come nel medesimo istante vivere all’ultimo piano dell’edificio. Modificazioni del modo di vivere la realtà sono del resto rintracciabili anche nel vero e proprio atto riproduttivo. Nella tradizione tra l’esperienza originaria e la sua riproduzione attraverso il ricordo vi è una scansione temporale. Nella riproduzione tecnica, non esiste più un vero e proprio inizio, proprio perché non vi è più un vero e proprio soggetto originario, ma tutt’al più un campione che non si differenzia per nulla dalle sue riproduzioni, ovvero che ha una differenziazione semplicemente convenzionale, per nulla ontologica. Per questi motivi <<l’intervento dell’operaio sulla macchina è senza rapporto con il precedente [intervento] proprio perché ne costituisce l’esatta ripetizione>>[36] . La verità che caratterizza l’epoca moderna, quella della riproducibilità tecnica, non si trova più nella corrispondenza tra un qualche cosa di originario e l’unicità della sua, riproduzione, ma tra riproduzioni medesime. L’origine ha perso perciò la capacità di dar vita all’originale. Essa è stata soppiantata dal processo meccanico tautologico, che nella sua capacità di produrre il sempre uguale ha la propria verità tangibile. In questo modo il processo meccanico ha assunto centralità nella società moderna, in quanto per le sue caratteristiche di dar concretezza alla concezione di medesimo, gli si è conferita anche la capacità di perfezione. Cosa impensabile per il tradizionale, affidato come si è visto all’arbitraria umanità del ricordo.

E’ questo nuovo modo di porsi della verità che annulla lo storico a favore della simultaneità immediata, e che quindi decentra l’uomo e lo frastorna. La perdita dell’esperienza originaria che il processo meccanico vaporizza, fa divenire l’esperienza umana <<esperienza dello choc fatta dal passante nella folla [la quale] corrisponde [a] quella dell’operaio addetto alle macchine>>[37]. Nel ricordo il rapporto con l’originale permane attraverso l’esperienza originaria. Esperienza originaria, e riproduzione rappresentativa coincidono, proprio perché convivono nel medesimo soggetto. Non esistendo una vera e propria scansione tra queste due istanze, ogni riproduzione rammemorativa è quindi sempre un originale. Nel processo meccanico invece questi non esiste più: quale è ad esempio il numero 1 originale in rapporto alle sue infinite riproduzioni: 1, 1, 1? Il primo, il secondo, il terzo? Questo processo non necessita di un originale affinché possa avvenire la riproduzione. Paradossalmente anche il niente, generatosi da uno scatto fotografico eseguito senza levare la mascherina che ripara l’obiettivo rendendolo inutilizzabile, è riproducibile infinitamente. Il processo meccanico che genera la riproduzione, non ha necessità d’altro che di se stesso. Il motivo è dovuto al fatto di essere autoreferente. Che 1 + 1 produca sempre il risultato di 2, è una certezza indiscutibile, e non necessita di nessuna validazione esteriore umana al processo stesso. Ciò che importa è semplicemente la correttezza del processo medesimo, in questo caso che il numero 1 sia sommato ad un altro numero uguale. Non ha nessuna importanza perciò conoscere cosa rappresenti quel numero, come potrebbe essere il riferirsi ad una mela o ad una pera. Quello che importa è che siano considerati uguali, ad esempio essere due frutti. L’assenza di discriminazione è perciò indispensabile alla buona riuscita del processo. La verità prodotta non può che disinteressarsi della qualità dei suoi assunti. Uno degli esiti è lo svuotamento d’importanza delle facoltà specificatamente umane. Mentre nella tradizione il darsi della verità avviene nell’esperienza dell’uomo, nella modernità non è più indispensabile neppure la sua presenza specifica; tant’è che le persone acquisiscono dignità solo in funzione del ruolo sociale che svolgono. Il motto odierno, “tutti si è utili nessuno indispensabile”, la dice lunga in merito a ciò, e fa sì che gli uomini <<somiglino alle povere anime, che si agitano molto, ma non hanno una storia>>[38].

Ma questo fondamentale svuotamento della centralità umana, che caratterizza l’epoca moderna e che trasforma le persone in massa, non sembra intimidire il nostro autore. Anzi, Benjamin, secondo la testimonianza della Arendt, presentata all’inizio del presente scritto, progetta persino un libro che si rifà ad un procedimento meccanico di mera riproduzione di quanto altri hanno fatto o detto; un libro di sole citazioni. Ma perché egli opta per un procedimento in cui la verità non è affidata all’uomo? Perché è affidata a Dio, forse? Probabilmente sì! Benjamin sceglie le caratteristiche di questa verità perché gli sembra sostanzialmente più giusta; perché assomiglia a quella del <<giudizio di Dio sulla tribù di Korah. Essa colpisce privilegiati, leviti, li colpisce senza preavviso, senza minaccia, fulmineamente, e non si arresta di fronte alla distruzione. Ma essa è anche, e proprio in essa, purificante, e non si può non scorgere un nesso profondo fra il carattere non sanguinoso e purificante di questa violenza>>[39]. La verità meccanica ha quindi in sé questa violenza sconvolgente, ma sostanzialmente necessaria, quindi non sanguinosa. Essa è perciò messianica, proprio perché il suo intento è la purificazione: l’abolizione del privilegio; privilegio che si mostra nella disuguaglianza, nell’arbitrarietà del ricordo. Ed è attraverso questa concezione di giustizia, in cui non solo pochi, ma tutti, possano fruire dei beni, che Benjamin affronta i discorsi inerenti alla maggior disponibilità dell’opera d’arte, che la riproduzione tecnica, nell’epoca moderna, permette.

Concetto centrale di questo tema, che Benjamin affronta nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, diviene la maggior possibilità espositiva che l’opera d’arte assume, essendo riprodotta in grande quantità; determinando un valore espositivo impensabile per un’opera unica e originale. Essa come evento unico era sostanzialmente inaccessibile ai più, e in questa inaccessibilità fondava la sua aura. Con la riproduzione tecnica quest’aura invece svanisce, proprio in funzione a quanto inversamente l’opera diviene accessibile. <<Il dipinto ha sempre affacciato la pretesa peculiare di venir osservato da uno o da pochi>>[40] in modo da costituire una situazione di privilegio, ma <<l’osservazione simultanea da parte di un vasto pubblico, quale si delinea nel XX° secolo, è un primo sintomo della crisi della pittura, crisi che non è stata affatto suscitata dalla fotografia soltanto, bensì, in modo relativamente autonomo attraverso la pretesa dell’opera d’arte di trovare un accesso alle masse>>[41]. Pretesa che è necessità di equità, di giustizia. Per questo <<ogni uomo contemporaneo può avanzare la pretesa di essere filmato >>[42], affinché la produzione artistica non sia una esclusiva per pochi, e quindi ognuno abbia l’opportunità di prendervi parte, di beneficiare di essa.

Ma se il tipo di verità che si genera nella modernità appare a Benjamin più equa di quella proveniente dalla tradizione, non per questo il presente si trova compensato dall’assenza di senso derivante dalla perdita dell’esperienza originaria. Per questi motivi Benjamin affronta la questione della riproducibilità tecnica, con un soggetto estraneo ad essere un mero prodotto. Questi è altresì l’opera d’arte. Un soggetto che modifica sostanzialmente i termini della questione. Collocando il tema della modernità all’interno di un discorso artistico, Benjamin colloca questa all’interno della sfera del linguaggio. I risultati di ciò sono presto detti, perché avviene che la modernità può porsi a cospetto di quell’origine che, come si è visto, il linguaggio porta con sé. La modernità attraverso il linguaggio può quindi acquisire un’anima, ovvero congiungersi con i valori di senso della tradizione. La riproducibilità tecnica, essendo assegnata alla sfera artistica, entra nel mondo del linguaggio; si consegna a quella teologia originaria che solo può dar senso alle cose. La verità divina originaria e quella messianica, ponendosi a cospetto, come tradizione e modernità, possono dar luogo ad una verità più giusta, che non per questo sia inumana.

Forse per questi motivi Benjamin progettava di adottare un metodo nuovo per la stesura del suo ultimo libro. Un metodo moderno, che si ponesse il più possibile ai ripari della arbitrarietà di una libera composizione, ma allo stesso tempo, per non soccombere all’insensatezza, attuato all’interno della lingua dell’uomo. Lingua comunque, come si è visto, non solo umana.

[1] Hannah Arendt, Il pescatore di perle, Mondadori, Milano 1993, p. 86.

[2] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1991.

[3] Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pp.89-160.

[4] Ivi,, pag. 39-74.

[5] Ivi,, pag. 39

[6] Ivi,, pag. 42.

[7] Ibid.

[8] Ibid.

[9] Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971.

[10] Ivi, p.28.

[11] Ibid.

[12] Ivi, p.8.

[13] Ivi, p.18.

[14] Ivi, p.10.

[15] Ibid.

[16] Ivi, p.18.

[17] Ivi, p.18.

[18] Angelus Novus, op. cit., p.39.

[19] Ivi, p.43.

[20] Ivi, p.63.

[21] Ibid.

[22] Ivi, p.58.

[23] Ivi, p.52.

[24] Ivi, p.73.

[25] Ivi, p.71.

[26] Angelus Novus, op. cit., p. 75.

[27] Ivi, p. 80.

[28] Ibid.

[29] Ibid.

[30] Ibid.

[31] Ibid.

[32] Ivi, p.78.

[33] Ivi, p.80.

[34] Ivi, p.140.

[35] Ibid.

[36] Angelus Novus, op. cit., p.131.

[37] Ivi, p.112.

[38] Ivi, p.130.

[39] Ivi, p.26.

[40] L’opera d’arte nell’epoca ... op. cit., p.39.

[41] Ibid.

[42] Ivi, p.35.