Alétheia o veritas? Il nuovo volto della verità

Di Liana Pisanu

“Nella cultura greca la filosofia nasce in sostanza con l’ambizione di replicare all’interno del tempo storico la conoscenza di cui è detentore il profeta sapiente del tempo mitico. Filosofia (philosophia) è infatti etimologicamente ricerca della sapienza (da phileo, “amo”, “cerco”, e sophia, “sapienza”). Ma la ricerca della sapienza va intesa nel quadro della concezione greca della ciclicità dei tempi: essa dunque non è da vedere come invenzione di una sapienza mai prima esistita, bensì come restaurazione di una sapienza obliata” (Marco Messeri, Verità, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 20).

Queste riflessioni sono da considerarsi strettamente intrecciate con le precedenti riguardanti Verità. Un tutto nel passato (Blog “Giornalismo riflessivo” del 3 dicembre 2010) poiché approfondiscono aspetti legati all’etimo di questa parola nella sua evoluzione.

Il vocabolo veritas nel senso di vereor (“rispetto” e “timore”) e vis (“forza”) suggerisce un’idea d’imposizione mentre alétheia è composta da una lettera iniziale di senso privativo, dalla radice lath- e dal sostantivo léthe (“oblio”) e significa quello che non resta nascosto. (Verità, op. cit. p. 18).

In buona sostanza mentre l’accezione latina è legata al significato di autorità quella greca è di autorevolezza come deriva anche dal passo che segue.

“Così, nell’ottica prefilosofica dei greci, verità e non verità sono originariamente attinenti alla situazione dialogica della testimonianza, situazione che per sua natura esige precisione e completezza. (…) Nella cultura greca arcaica il poeta è testimone per eccellenza e ha dunque un rapporto privilegiato con la alétheia. Poeta è infatti colui che testimonia la vicenda mitica che fonda le tradizioni della comunità” (ibidem).

Umberto Galimberti approfondisce questo aspetto nel passo che segue.

“Il poeta greco canta per descrivere ciò che è prima del tempo, per strappare delle vite alla dissolvenza del tempo, per riprodurre in terra l’ordine che il tempo non scalfisce. (…) Il nesso anima, trascendenza e immutabilità, guadagnata nell’eternità dell’essere dopo aver oltrepassato il divenire e il tempo, trova nel canto poetico la sua prima espressione. Dea titana, sorella di Krònos e Okeanòs, madre delle Muse, il cui coro essa guarda e con le quali talvolta si confonde, Memoria “possiede” i poeti rendendoli “entusiasti”. Questa possessione (katokoché) sottrae il poeta al ritmo della vita quotidiana, alla scansione del tempo lineare, per portarlo in quella condizione di entusiasmo (enthousiasmòs) che è tipica di chi ha in sé un dio (én-theos). Nell’entusiasmo, infatti, non parla più il poeta, ma il dio che lo abita: Deus inclusus corpore iam, non Cassandra loquitur,” dice Cicerone nel De Divinatione (I, 67), quasi riprendendo i versi di Euripide: “Quando invero il dio entra possente nel copro / fa dire il futuro a coloro che infuriano” (Baccanti, 299-300). Questa condizione di “possessione” e di “entusiasmo”, senza di cui non c’è creazione poetica, è riconosciuta anche da Platone che la annovera tra le forme di divina follia (theiamania).(…) Chi è poeta per “tecnica” e non per “possessione” non dispone infatti di quella visione che i Greci chiamavano epopteia. Questa parola significa letteralmente “guardare al di sopra”, e non “indietro”, per ricostruire il proprio passato o per rintracciare la propria identità. Anzi con l’epopteia è proprio l’Io del poeta a cedere per lasciare il posto a una visione che è al di là dei propri ricordi e del proprio tempo.(…) Come tutte le imprese che non dipendono unicamente dall’uomo, la creazione poetica contiene qualcosa che, dice Omero, non è stato scelto (éloito) ma concesso (edédoto), dove “concesso” significa “dato dagli dei” (…) Il rapporto col dio esige il sacrificio dell’Io; la vista superiore, l’epopteia, ha la sua controparte nella cecità per le cose della terra. (…) A questo mondo l’anima del poeta può accedere, può entrare e ritornare liberamente per dono di memoria” (Umberto Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Milano 2004, pp. 26-29).

I romani fanno di veritas un concetto legato alla giustizia e al diritto mentre in Grecia alétheia è espressione della Tradizione e di ciò che non deve essere dimenticato. In un caso verità è strumento dei giudici nell’altro è espressione dei poeti.

E non è la stessa cosa.

Infatti in greco ‘io so’ si tradurrebbe con oida ‘ho visto’ a indicare che l’esperienza del conoscere è un’esperienza diretta e ancor più ispirata al divino vedere.

Viene dunque a mutare la concezione stessa di conoscenza.

Secondo Messeri la parola greca kosmos “ordine delle cose” è legata a concetti quali autorevolezza e totalità ai quali il filosofo deve attenersi.

Tra i mortali la sola conoscenza possibile è quella del filosofo, del sapiente, perché è l'unico che, escludendo il divino vedere e la possessione divina, raggiunge uno sguardo d'insieme e penetra l'ordine complessivo.

La prospettiva d’analisi del presente elaborato propone i concetti Logos e mythos interni alla verità (alétheia) e non posizioni dicotomiche come razionalità e irrazionalità, ragione e fede, bensì “la scelta dell'argomentazione esauriente contro la ripetizione inevitabilmente frammentaria della tradizione” (Verità, op. cit. p. 21).

Esiste dunque una conoscenza divina espressa dai poeti e ripresa dai primi filosofi che viene a mancare dopo la cosiddetta ‘Battaglia dei giganti’ e da allora mutata in divinizzazione della conoscenza come credenza incontrovertibile.

È esistito un tempo che ha visto contrapporsi due posizioni “come i giganti e gli dèi del mito” (Giancarlo Movia, Apparenze, essere e verità, Milano 1991, p. 251).

La fine di questo ciclo è evidente anche in Aristotele quando specifica che il divino è nel cosmo: “nel mondo delle stelle con le loro leggi immutabili eterne, manifesto per lo spirito che pensando contempla” (Hans Urs von Balthasar, Nello spazio della metafisica, Milano 1998, p. 206).

Il divino perviene agli uomini attraverso i fenomeni spirituali ma anche “dai fenomeni del cielo, il cui ordine mirabile rivela un eterno spirito” (ibidem).

Questa precisazione apre uno spiraglio al successivo e conclusivo aspetto che volevo sottolineare.

Vittorio Possenti in La questione della verità: filosofia, scienze, teologia considera il testo di Messeri Verità (Firenze, 1997) tra le fonti bibliografiche e ritengo possa ben inserirsi, nelle considerazioni sinora fatte, il passo che segue.

“Una nuova partenza per la domanda sul vero consiglia un cammino che va dall’”eterno ritorno” al “ritorno all’eterno”, il superamento del carattere intrinsicamente storico attribuito al conoscere umano e l’intendimento dell’asserto secondo cui in alcune operazioni, e certo in modo precario e parziale, intellectus supra tempus” (Roma 2003, p. 43).

Così facendo l’autore da una parte permette alle differenti branche della conoscenza di confrontarsi tra loro.

“La teologia potrà con sovrana libertà continuare il suo dialogo con le scienze storiche, quelle ermeneutiche, quelle naturali e biologiche (finora le prime sono state privilegiate, fino al punto che si assumeva talvolta in teologia l’idea della verità solo come storia), ma a patto che non desuma da esse l’idea di verità volta a volta influente, ma operi in unione alla filosofia una critica delle varie idee di verità alla luce di quella di corrispondenza. Questa idea nella sua valenza trascendentale è dotata di una data flessibilità che le consente di venire declinata in modi analoghi e non univoci, per adattarsi alle esigenze scientifiche dei vari campi” (ivi, p. 42).

Mentre dall’altra pone la conoscenza fuori dal tempo e la restituisce a quel concetto di ciclicità che tanto peso ha nella sua determinazione e all’origine stesso del concetto di alétheia.

Le parole di Galimberti sono molto simili riferendosi al tempo, al cosmo, all'essere e alla verità in contrapposizione dell'apparenza.

“Quest’immagine, simile a quella che riproduce Chronos come un serpente chiuso in un cerchio su se stesso, disegna quel tempo ciclico che circondando il cosmo ne fa, nonostante le apparenze (tà phainomenia) di molteplicità e cambiamento, una sfera unica e eterna. Il Tempo, che la teogonia orfica pone come prima divinità, dice quell’unità ed eternità del tutto che su un altro piano ribadirà Parmenide con la sua immagine dell’essere sferico che lascia nell’inconsistenza ogni molteplicità e divenire. Tra il tempo dell’essere e il tempo dell’uomo si apre una lacerazione che è poi la stessa che, nel linguaggio della filosofia, ritroveremo tra verità e apparenza. Lo spazio della lacerazione sarà abitato dall’anima il cui compito è di portare verità dove è apparenza, eternità dove è dissolvimento temporale” (Gli equivoci dell'anima, op. cit. 24).

Così concludo questa seconda parte e lascio aperta una sponda per la terza e conclusiva chiarificazione riguardo il concetto di doxa.

Se a Parmenide la dea rivela il sentiero della conoscenza e “proibisce la strada familiare ai mortali dell'opposizione dei contrari” (Verità, op. cit. p. 26) per Platone e Aristotele il procedere del filosofo è un ritornare e la ricerca della sapienza un processo di restaurazione.

La conoscenza riguarda l'essere (ousia “entità”) mentre il divenire (génesis) è opinione.