La Nona Ora

Di Attilio Fortini

 Un omicidio dispiegabile


"All'ora sesta si fece buio su tutta la terra fino all'ora nona. E all'ora nona, Gesù con gran voce esclamò: 'Eloi, Eloi, lamma sabactani?' che tradotto significa: 'Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?'"

Perché il Padre ha abbandonato il Figlio? Forse perché quello era l'unico modo in cui il Figlio avrebbe potuto far ritorno al Padre? Un'evidente aporia quindi? Indubbiamente! Quando si ha a che fare con qualcosa di dualistico, quando si ha a che fare con una partenza e un arrivo, si ha a che fare con la vita; e l'ambiguità è di rigore. Del resto che prima di ogni ritorno debba esserci una partenza, che prima che il Figlio possa ritornare al Padre vi debba essere l'abbandono del Padre, è indubbiamente anche logico. Ma nel caso che qui si vuol trattare, ovvero l'opera dal titolo La ora nona di Maurizio Cattelan, esposta attualmente alla 49. Biennale di Venezia presso gli spazi delle Tese delle vergini, quale è invece la partenza e quale l'arrivo? Quale è la sua logica?

In un certo senso questa è già stata trovata da alcuni integralisti cattolici, che quando l'opera è stata esposta a Varsavia hanno ritenuto corretto danneggiarla. Certamente la loro conclusione ha corrisposto a quanto lì c'era da vedere. Ma mi chiedo: siamo giunti veramente ad un punto in cui l'arte, non sentendo più l'impellente necessità di sperimentare i diversi modi della percezione, si offra in quell'unico dell'evidenza? E che quindi, il suo essere così accessibile, non richieda più nessun tipo di ermeneutica, o almeno, di esitazione interpretativa? L'alchimistico Grande Vetro di Marcel Duchamp, ad esempio, non avrebbe mai subito quella sorte; ma sempre il suo voyeuristico Dati: 1° la caduta d'acqua, 2° il gas d'illuminazione, che invece, appunto, mostra tutto, probabilmente sì. Trovare motivazioni è forse il modo più ovvio per tentare di assecondarsi le cose, ma le cause, o le presunte tali, nel loro rinviare sempre a qualcosa d'altro, non dicono mai nulla di quello che invece le cose sono. E' anche probabilmente per questo motivo che Duchamp, il quale invece aveva a cuore l'indipendenza casuale delle cose e il loro proprio senso, non mostrò Dati... se non dopo la sua morte, quando il fragore delle varie volontà umane si sarebbe forse almeno un po' assopito. Ed è probabilmente anche per ciò che Dati... rimane, nella sua evidenza, più misteriosa del Grande Vetro, nel quale, invece, anche per merito dell'entusiasmo psico-simbolico del suo tempo, le cause o presunte tali sono affluite in modo cospicuo, e in alcuni casi anche prepotentemente.

In effetti il Grande Vetro e Dati... si propongono diversamente; se nella prima opera la questione riguarda comprendere cosa lì ci sia, nella seconda il mistero coinvolge cosa lì c'è, perché appunto, "ciò che si dà l'aria di essere pura luminosità è penetrato e dominato dall'oscurità" ci dice Martin Heidegger. L'evidenza, quando giunge alla sua compiutezza, non può che essere rivolta al suo opposto. E' per questo che La ora nona, assimilabile nei suoi aspetti luminosi a Dati..., pur mostrando tutto non mostra nulla? Quest'opera non può essere solo vista, dato che il suo senso è invisibilmente ripiegato nell'oscura luminosità che mostra. E se è il suo senso più che il suo motivo ciò che si vuol vedere, allora bisogna prendere in considerazione quelle pieghe oscure, proprie dell'evidenza. In quanto per "avvicinarsi all'essere" dell'ente, al senso proprio delle cose, bisogna rivolgersi "verso il di-spiego" dell'essere di quell'ente. Bisogna scordarsi di guardare causalmente, o come dice ancora Heidegger, bisogna prestare attenzione al di-spiego della "presenza di ciò che è presente", affinché qualcosa si possa veramente vedere. Perdere l'immediatezza del mondo non coincide però con la perdita del mondo, ma solo con la sua economia causale. Quell'economia a cui tutto c'è una risposta, perché tutto è visto come sotto-posto ad una intenzione, ad una volontà.

Gilles Deleuze dice che "una percezione cosciente non si attuerebbe mai se non integrasse un insieme infinito di piccole percezioni che disequilibriano la macropercezione precedente e preparano la seguente". Appare quindi che se non si vuol rimanere ad una coscienza dell'esistente offertaci dall'economia causale, si debba guardare all'unione tra il Papa e il meteorite, dell'opera di Cattelan, come ad una piega. Guardandola come fosse la macropiega di una macropercezione, nella quale attraverso le "piccole pieghe, orientate in tutti i versi, pieghe nelle pieghe, sulle pieghe secondo le pieghe", veniamo rimandati ad una nuova appercezione cosciente. In questo modo la piega che risulterà visibile non sarà più "quella della materia attraverso la quale si vede", l'apparenza evidente, ma quella "nella quale si legge", ossia nella quale si comprende il senso.

Iniziamo quindi secondo questo percorso propostoci da Deleuze, a considerare la coscienza iniziale, la prima macropiega: quello che nell'Ora nona si vede. Ciò che appare è l'immagine di un Dio burlone e ingiusto, che fa piombare sul suo più illustre e fedele rappresentante in terra, quello che dovrebbe possedere anche maggior diritto a non subire un trattamento di questo genere, un astro del suo dominio celeste. Sì, questo è ciò che lo spettatore vuol vedere e vede: il colpo di scena inaspettato: il nuovo nell'arte. Come una barzelletta che fa ridere solo se si è sentita per la prima volta, così l'arte contemporanea ha successo solo se rientra nell'attesa dello spettatore: ossia trovare ciò che non ci si aspetterebbe, ma anche non trovare ciò che come abitudine ha perso la possibilità di farsi sentire. Ciò che si vuole è uno stacco dall'ordinario: un motto di spirito geniale. Allora più che all'opera si guarda alla sua causa, si guarda all'artista, il quale come deus ex machina di questo processo gratificante, viene applaudito o meno a secondo che sia stato in grado o meno di offrire soddisfazione, viene ingiuriato o meno a secondo del suo aver leso o meno onori, dignità, interessi... In questo modo tutto ricade sull'artista, sulle sue intenzioni e responsabilità, in modo tale che la voce dell'opera, nel suo essere anche materia, rimane orfana, rimane muta.

Ora proviamo a leggere quelle piccole pieghe che sempre secondo Deleuze dovrebbero portarci alla preparazione della macropercezione seguente, nel nostro caso ad una diversa coscienza dell'opera. Un macigno nero: si è detto un meteorite... Chi ha causato questo vedere? L'artista, la critica, la scienza... No! Quello è un peso. Il peso della materia, "infinitamente porosa, spugnosa o erosa senza presentare vuoti, ma sempre come una caverna nella caverna". E' il peso della vita! Quando si giunge alla vita, ciò avviene con un corpo, e questo possiede un peso. Non è casuale che uno dei primi attributi che descrivono un bimbo appena nato sia quello del peso. Ed è anche questo l'unico peso che in genere viene ricordato: "quando era nato/a pesava..." Quando si muore invece il peso svanisce, e nessuno si cura di ricordare quanto si pesasse prima di morire. Più si pesa e più si ha corpo; più si pesa e più si ha prospettiva di vita. E' questo in fondo ciò che ci si aspetta da un bambino: che viva!

Se allora è il peso quello che schiaccia il Papa, è il suo corpo più che un meteorite ciò che lo sta schiacciando?

Proviamo con un'altra piccola piega, anche se molto lunga. Questa si diparte almeno da Platone, il quale fa dire a Socrate nell'Alcibiade, che non potendo il corpo dare ordini da se stesso, essendo "lui a ricevere degli ordini", l'uomo non può essere "nient'altro che anima". Questo egli lo fa dire appunto ad Alcibiade, il quale, al culmine rigoglioso delle sue doti corporee, vorrebbe proporsi come governante della polis ateniese. Ma Socrate lo ammonisce dicendogli che per essere un buon governante bisogna saper agire correttamente, e per far ciò bisogna prendersi cura dell'anima più che del corpo. E' questo secondo il filosofo greco anche il senso del motto delfico del Dio: "conosci te stesso". Dio vuole l'azione giusta, e perché ciò avvenga si deve possedere conoscenza di ciò che questa azione produce: ossia ciò che quest'azione anima. E dato che l'uomo non è altro che anima, l'uomo conoscendo se stesso non conoscerà nient'altro che la sua anima.

La concezione di un'anima che ha priorità sul corpo sarà fatta propria dal Cristianesimo, ma anche, per rovesciarla, dallo stesso Nietzsche, il quale fa dire a Zarathustra: "sono tutto corpo e nulla all'infuori di questo, e anima è solo una parola per qualche cosa che è nel corpo": forse solo la nostra odierna e fragile psiche. Concezioni queste che probabilmente hanno dato rilevanza solo ai rapporti di subordinazione, più che di complementarità, trascurando ad esempio, nel caso platonico, che se Socrate s'intrattiene con Alcibiade affinché questi possa divenire un virtuoso, è perché lui ama Alcibiade. Del resto nessuno si occuperebbe di "Alcibiade, o di qualsiasi altro Ateniese" se non fosse nella condizione di esserne amante, dice lo stesso Socrate. E Socrate è nella condizione di essere amante di Alcibiade, non perché lo reputa una persona saggia, da cui imparare molte cose, ma principalmente per le doti del suo corpo rigoglioso. Che quindi il corpo non sia solo strumentalmente secondario ma bensì fondamentale allo sviluppo delle caratteristiche virtuose dell'anima, è un fatto che è stato per lo più trascurato. Certamente dal Cristianesimo, il quale facendo proprio il primato dell'anima nella sua coincidenza con la volontà divina, ha fatto proprio anche il primato dell'abnegazione del corpo. Il cristiano perfetto sarà perciò un uomo che coincide con la propria anima, la quale d'altra parte possiede le stesse caratteristiche d'eternità e incorruttibilità dell'iperuranico "essere che realmente è, senza colore, senza forma" ossia ciò che è puro, ma anche nulla.

Ora possiamo tornare al Papa della nostra opera, e domandarci: che Papa è quello che lì è travolto dal macigno? Non sembra per nulla al Papa solido e rassicurante di Giacomo Manzù. Come nemmeno a quello inquietante e in dissoluzione di Francis Bacon. Forse quello non è il Papa, sicuramente quello è un uomo che coincide con l'idea universale della sua anima. Non è quindi Karol Wojtyla! Non è il tremante e sofferente Papa che generalmente e ultimamente vediamo. Cattelan avrebbe forse fatto bene a premunirsi scrivendo appresso: "ceci n'est pas le Pape". In effetti quella è l'icona di un'essenza spirituale! Non ha nulla a che fare con il corpo di un mortale. La sua caduta inverosimile e inespressiva, incurante dell'evento materiale a cui partecipa, assomiglia a quella di un rigido soldatino rovesciato a terra. Ma ciò nonostante, in quell'effigie, ritroviamo l'imperturbabile immutabilità ed eternità dell'istituzione ecclesiastica, l'universalità evangelica ed ecumenica del pontificato globale... Insomma, troviamo Papa Giovanni Paolo II, in tutto quanto è dimenticanza delle proprietà materiali e singolari del corpo, nell'intento di mostrare la realtà spirituale e universale dell'idea, nel mostrare sostanzialmente le parole dell'aforisma hegeliano: "ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale". L'emblema più appariscente di ciò è l'ostentazione ferma e risoluta del pastorale: voluto con il Cristo in croce, voluto con l'insegna spirituale dell'assurdità e vacuità del corpo, di ciò che ha le sue leggi ingiudicabili e irrazionali, quindi d'abbandonare in fretta al suo ignobile destino. Forse in questo sì che è possibile ravvisare un'affinità con quel corpo di Papa che è in fuga dalla propria bocca, dipinto da Bacon.

Ora un'ultima piccola piega. Se quelle due precedenti, quella del macigno e dell'iconico Papa, erano disposte parallelamente, questa che si vuol di-spiegare, nonostante apparentemente sembri non possedere una relazione diretta con quelle, invece in modo perpendicolare le attraversa. Questa è la piega del vetro infranto. Ancora una volta la narrativa causale ci fa ritrovare in ciò un indizio: il segnale di un accadimento, forse ciò che rimane di un ipotetico abbaino infranto dal noto meteorite. Certo! Se ciò fosse solo un indizio, ma come si è detto per il nostro discorso questa è una piega, anzi questa è l'ultima piega, dopodiché può avvenire solo un passaggio: solo un ritorno. Un vetro è infranto. Qualche cosa che era nato per corrispondere alla sua idea immanente di suddividere un dentro da un fuori ha ceduto. La parte più vulnerabile tra il dentro e il fuori di un edificio è a terra. La membrana più esile del rigore dualistico si è rotta. La casualità di quell'infrangersi, la legge inumana del disporsi di quei vitrei frammenti, è la parola di Chi a gran voce rivuole suo Figlio. Il vetro infranto è l'oscurità dell'ora nona, è l'oscurità del fatto che l'anima immortale deve tornare nel corpo: l'oscuro unico modo affinché il corpo possa morire con l'anima. Ed è anche in questo modo che Gesù, ritrovando la propria corporeità mortale, può venire abbandonato dal Padre eterno, e far ritorno al Padre creatore.

L'ora nona è giunta: il corpo chiede la sua anima; l'anima chiede il suo corpo. Un evento si è compiuto, le pieghe di-spigate; ma tutto continuerà a compiersi, ma tutto continuerà a ripiegarsi, almeno finché l'ora nona continuerà a giungere; almeno finché leggere sarà ritenuto incredibile come vedere.